Life In Low-Fi

Ora basta, anarchia!

“Per tirare le somme: se mi sono abbonato al Post, e ora ci scrivo pure, è perché quando leggo un giornale preferisco che sia scritto pensando a che cosa si scrive, e a come lo si vuole scrivere. Non c’è proprio nulla di “spontaneo”, nella scrittura. È un lavoro che richiede dubbi, esitazione, pensiero, rispetto dell’intelligenza dei lettori e anche della propria, facilmente latitante quando si scrive “in automatico”. Non voglio che un giornale di informazione sia “divertente” – se voglio ridere, mi rivolgo a qualche buon sito di satira, o guardo le locandine del Vernacoliere. Credo che le parole siano davvero importanti, e valga la pena usarle avendo ben chiari gli ambiti, i generi, il contesto. Come se si sapesse sempre quello che si sta facendo.”

Michele Serra

“Se Twitter è il posto in cui tutti diventano terribili e Facebook è la dimostrazione che tutti sono noiosi, Instagram ti fa temere che tutti siano perfetti. Tutti tranne te.”

Alex Hern

Seguirà ulteriore pezzo di delirio auto prodotto (appena smetto di leggere un libro in due/tre giorni; sì, è un ottimo periodo).

Dalla newsletter del Post “Charlie”, dedicata ai giornali:

“Un falso è un falso

Die Aktuelle è un settimanale femminile/scandalistico tedesco tuttora con una diffusione cospicua, che nel suo ultimo numero ha messo in copertina “la prima intervista” con Michael Schumacher, famoso pilota di Formula 1 che dieci anni fa ebbe un gravissimo incidente di sci e da allora la sua famiglia che lo cura non ha voluto che i media se ne occupassero. L'intervista della Aktuelle era un falso, costruito con un software di “intelligenza artificiale”, come si capiva all'interno del giornale. La famiglia Schumacher ha comunicato che sta pensando di denunciare il settimanale.”

Ah, signora mia, le A.I. rovineranno il mondo.

Non sarò stato l’unico a cui è impazzito il widget meteo di iOS. Almeno, spero di non essere stato l’unico (SO di non essere stato l’unico, me la tiravo per avere un giro di compassione digitale gratis).

Il problema è che – per me – è un micro pezzo dell’iPhone piuttosto importante. Mi muovo a piedi ogni volta che posso, ho – eufemismo dell’anno in arrivo – qualche cosina da fare ogni tanto ed in generale mi scoccia parecchio fare docce non richieste.

Ho quindi dovuto trovare piuttosto velocemente un sostituto, che alla fine si è rivelato essere OpenWeather.

Bell’app, buon servizio, precisione molto buona, ha un widget.

Il che, aprendo forse io l’applicazione Meteo un paio di volte all’anno, É l’applicazione. Sono state scartate applicazioni decisamente meritevoli perché i widget – quando c’erano – facevano schifo.

Adesso che il software nativo sembra essere tornato in sé, posso metterli uno contro l’altro e vedere chi mena più forte.

Devo dire che se la giocano: le maggiori differenze, non abitando in USA e non godendo quindi delle previsioni iperlocali, sono quasi totalmente estetiche. A me l’applicazione stock ha sempre garantito una certa sicurezza e precisione nel capire cosa aspettarmi dalla giornata.

C’è un singolo parametro, però, che a mio avviso sposta l’asticella verso Apple Meteo: la presentazione grafica del widget.

Quello di OpenWeather è minimale, ma ricco d‘informazioni: tutto ciò che consente di non aprire l’app si trova lì. Ma quello nativo SI LEGGE MEGLIO.

Non è solo questione di dimensioni del font (ma aiuta), o di disposizione degli elementi (ma aiuta): sono tutta una serie di “suggerimenti” visivi che fanno parte integrante del processo di trasmissione delle informazioni.

La temperatura attuale è più grande e visibile, più staccata dagli altri dati. Più distanza tra le previsioni di un giorno e dei successivi. Lo sfondo cambia “colore” a seconda delle condizioni meteo.

Il widget di OW lo leggi, sull’altro puoi “buttare un occchio” e le informazioni che ne ricavi sono le medesime.

Piccole differenze che 1 come quei sempre – noti solo quando vedi all’opera le alternative possibili.

Educativo.

Mi sto scontrando con la verifica degli account Mastodon. Che dovrebbe essere – letteralmente – questione d’incollare questo link. Che però, non pare funzionare, perché non riesco a far digerire al Markdown di Rant.li un tag html.

Non ho mai avuto spunte su Twitter e me ne frega poco che qualcuno si finga me su Mastodon (e nessuno sano di mente sarebbe mai interessato a farlo), ma sta diventando una questione (tecnica) personale.

Devo studiare.

Questo post di Lucio Bragagnolo mi ha fatto venire in mente la prima volta che ho letto Arancia Meccanica.

Il primo dei libri che ricordi ad aver richiesto di immergersi – in maniera quasi fideistica – non solo nella storia e nel mondo creato, fornendo zero spiegazioni e chiedendoti semplicemente di “andare avanti finché non ci capirai qualcosa” (l’ultimo esempio, clamoroso per brutalità nei confronti del lettore e parallela, equivalente spettacolarità del momento in cui tutto diventa chiaro, è “Inverso” di William Gibson), ma anche nel linguaggio usato.

E se si sopravvivere all’impatto, poche cose immergono in una storia come una “lingua segreta”.

Interessante spunto nella (interessante anch’essa) newsletter Ellissi pre pasquale (ci si iscrive da qui ).

Valerio propone come chiave di lettura – positiva – del boom delle AI conversazionali (categoria il cui esponente più famoso è ChatGPT) il ritorno della domanda.

Secondo al sua tesi, l’interazione con la Rete si è progressivamente trasformata da una serie di domande, ad esempio gli “spunti” usati dai Social Network per spingerci a fornir loro contenuti, ad una tendenza ad impartire comandi. Più di tutti, sostiene, sono stati gli algoritmi dietro ai motori di ricerca a cancellare la nostra abitudine a chiedere informazioni: con la loro capacità predittiva, sbandierata a più riprese come il proprio punto di forza, ci hanno spinto a ragionare in termini di “chiavi di ricerca”.

Non più “Che tempo farà domani a Genova?”, ma “meteo Genova domani”.

È indubbio come l’evoluzione delle ricerche abbài seguiti o proprio il percorso da lui suggerito, anche se ritegno che una parte del cambiamento sia imputabile al passaggio da “landa inesplorata” a “strumento familiare” che ha vissuto Internet negli anni.

Anche il suo voler “tirare in mezzo” gli assistenti vocali come ulteriori stimoli a comandare invece di chiedere funziona solo in parte, a mio avviso, visto che la natura esecutiva di gran parte delle nostre interazioni richiede una determinata forma (l’imperativo), mentre per il resto l’assistente vocale di turno, con il suo disperato tentativo di umanizzassi, porta a domandare più che a esigere.

Il ragionamento però resta comunque valido, soprattutto nello “scarto” finale, dove Valerio evidenzia come – nell’utilizzo delle AI -generative (e forse più che in quelle testuali, in quelle visivo-grafiche) sia di fondamentale importanza il prompt.

“Fare domande ragionate può dunque stimolare maggiormente la nostra curiosità e la nostra creatività, aiutandoci a rinunciare agli imperativi e – forse – a farci tornare più umili.”

Anche se penso, in virtù del mio status di “più pessimista tra gli ottimisti”, che l’umiltà come virtù dell’utente richieda uno sforzo immane per essere recuperata, e tempi lunghissimi che basterebbero a garantire uno sviluppo delle AI che le porterebbe ragionevolmente a comunicare con noi in maniera telepatica, mi piace pensare che il cambio di modo di ragionare e l’essere forzati a concepire domande articolate migliori gli utenti e faccia loro compiere un percorso evolutivo almeno equivalente a quello della rete neurale che a quelle domande dovrà rispondere.

Le peregrinazioni in cerca di un nuovo monolocale digitale mi avevano portato a considerare – tra le varie piattaforme – anche Substack. Mi sono presto accorto che non era però cioè che cercavo, e l’ho quindi relegato ad un “forse, un giorno, chissà”, complice anche l’aver compiuto la registrazione con il – mai abbastanza lodato – sistema “Nascondi la mia mail” di Apple.

Si dice spesso “una soluzione in cerca di un problema”. Questo credo sia un caso da manuale.

Durante le ricerche dei link per il mio abituale post domenicale di “roba da leggere sotto il piumone” (ancora per poco, ma ce lo godiamo ostinatamente fino all’ultimo), mi son reso conto di quanto la tipologia di post consistente – per l’appunto – in una serie di link che hanno l’unico scopo di fornire spunti di riflessione o di divertimento stonasse con l’attuale mood del mio blog.

Ho quindi deciso di riesumare Substack (che potremmo definire come la casa naturale delle liste di link periodiche, anche in virtù del suo formato di newslettter) e provare a trasferire lì questa parte del mio io digitale. Se tutto va come deve (siamo pur sempre nella patria dell’anarchia digitale), il primo “numero” dovrebbe essere pronto per domenica prossima.

Quanto al titolo di questo post, mi sto sempre di più godendo di questa nuova “identità distribuita”: con una frequenza d’uso più o meno elevata, questo mondo sfaccettato e diviso tra Mastodon, Rant.li, Vagabundo, Substack, AlbumWhale (e chissà cos’altro) mi sta più “comodo” di quanto potessi pensare prima di lanciarmi nell’esplorazione.

D’altronde, non siamo entità monolitiche (qualcuno meno di altri, per di più), quindi perché dovremmo essere soddisfatti di esprimerci attraverso un unico servizio centralizzato?

La settimana scorsa, Garbage Day proponeva un’interessante analisi “passo per passo” dei casini di Twitter. O meglio, vista la frequenza con cui avvengono, dei casini degli ultimi dieci minuti in Twitter.

In ordine sparso.

In seguito alla pubblicazione del proprio algoritmo, siamo venuti a conoscenza del fatto che le categorie di utenti sono quattro. Non è meraviglioso? Quattro. Tutte le discussioni sulla tribalizzazione online, sulla complessità del mondo rispecchiata nei social media, sul non farsi incasellare...quattro.

Saranno almeno quattro categorie astratte, onnicomprensive per quanto possbile, in grado di riflettere i molteplici punti di vista che...manco per niente.

Quattro. Repubblicani, Democratici, Power user e Elon Musk.

Se non facesse già abbastanza ridere così, pensate che – nella sciagurata parodia di un AMA che Muschio ha messo su (su twitter Spader, ça va sans dire) – alla domanda perchè facesse categoria a sé come i super cattivi di serie B, si è prodotto in un classicissimo “no Maria, io esco”.

Passando a cose più sostanziose, una serie di teorie sul funzionamento dell’ algoritmo di Twitter si son rivelate vere. Hurrà, giusto? Non proprio.

Gli utenti sono organizzati in gruppi e sottogruppi: se si esce dal proprio “recinto ideologico assegnato”, si viene penalizzzati. Twitter molto male.

Il rapporto tra account seguiti e che ci seguono è molto importante. Logico, se ci si pensa, ma deleterio in quanto premia gli spammer, anche perché Twitter Blue (ammesso che alcuno davvero lo usi) aiuta ad essere più visibili, ma mai quanto pubblicare foto e video. Indinniati reloaded. Twitter molto male.

Pubblicare invece link a siti esterni, pur somigliando – apparentemente – ai contenuti multimediali di cui sopra, porta al risultato opposto, ovvero una diminuzione della “promozione”. Perché da qui non si esce. Twitter molto male.

I tweet sull’Ucraina sono classificati come disinformazione. Bene, così fermeremo la propaganda che inquina la discussione pubblica e...no. Tutti sono classificati come disinformazione. Qualsiasi cosa dicano, per il solo fatto di parlarne. Twitter molto male.

Veniamo quindi alla faccenda degli account verificati. Oltre ad essergli costati una serie di sfottò apparentemente infinita, i “blue check” stanno rivelandosi il peggior esempio del “cambio di gestione” della piattaforma. Twitter ora può sospendere temporaneamente l’attribuzione della spunta blu in caso di cambio della foto profilo, dell’immagine associata all’account, o del nome visualizzato. Inutile dire come questo possa rivelarsi un manganello decisamente efficiente contro account “sgraditi”. Un esempio l’abbiamo già avuto: il New York Times, dopo aver pubblicamente dichiarato che non pagherà per la verifica, ha perso la spunta blu. Musk stesso aveva scritto (e ha poi cancellato perché è un essere profondamente razionale, con atteggiamenti per nulla isterici e totalmente equilibrato) che se schifi pubblicamente l’idea di pagare per il blue check, questo ti verrà tolto (anche se rientri in una delle categoria che ne avrebbero “diritto” semiautomaticamente, ovvero “rilevante in attività di governo, informazione, intrattenimento o altra categoria designata”).

Come se ciò non bastasse a definire l’ennesimo caso di gne-gne da parte del nuovo padrone del vapore, un altro tweet successivo all’interno della medesima querelle con il NYT ha classificato i contenuti della testata su Twitter come “l’equivalente della diarrea. Illeggibili”. Twitter molto male.

Cosa rimane, dunque, di non troppo osceno? Sarò ottimista, ma mi pare che l’avere avuto conferma di quelle che potevano essere bollate come semplici supposizioni sia comunque un passo avanti. Sapere come funziona – per ora, poichè l’imponderabilità pare essere più che mai dominante in casa Twitter – una delle piattaforme che, anche in questa condizione di sbando e rapidissima perdita d’importanza, influenza il discorso pubblico in maniera evidentissima, mi pare un’ottima arma difensiva. Un algoritmo noto si può manipolare, si può “rompere”, ma ci permette anche di riconoscere facilmente quando i guastatori e i professionisti della manipolazione entrano in azione. Twitter (suo malgrado) molto bene.

...da ciò che resta di Twitter a Mastodon. Per tutta una serie di ragioni che forse cercherò di mettere giù in futuro.

Mi trovate qui: mstdn.social/@metranet