Life In Low-Fi

Ora basta, anarchia!

Interessante spunto nella (interessante anch’essa) newsletter Ellissi pre pasquale (ci si iscrive da qui ).

Valerio propone come chiave di lettura – positiva – del boom delle AI conversazionali (categoria il cui esponente più famoso è ChatGPT) il ritorno della domanda.

Secondo al sua tesi, l’interazione con la Rete si è progressivamente trasformata da una serie di domande, ad esempio gli “spunti” usati dai Social Network per spingerci a fornir loro contenuti, ad una tendenza ad impartire comandi. Più di tutti, sostiene, sono stati gli algoritmi dietro ai motori di ricerca a cancellare la nostra abitudine a chiedere informazioni: con la loro capacità predittiva, sbandierata a più riprese come il proprio punto di forza, ci hanno spinto a ragionare in termini di “chiavi di ricerca”.

Non più “Che tempo farà domani a Genova?”, ma “meteo Genova domani”.

È indubbio come l’evoluzione delle ricerche abbài seguiti o proprio il percorso da lui suggerito, anche se ritegno che una parte del cambiamento sia imputabile al passaggio da “landa inesplorata” a “strumento familiare” che ha vissuto Internet negli anni.

Anche il suo voler “tirare in mezzo” gli assistenti vocali come ulteriori stimoli a comandare invece di chiedere funziona solo in parte, a mio avviso, visto che la natura esecutiva di gran parte delle nostre interazioni richiede una determinata forma (l’imperativo), mentre per il resto l’assistente vocale di turno, con il suo disperato tentativo di umanizzassi, porta a domandare più che a esigere.

Il ragionamento però resta comunque valido, soprattutto nello “scarto” finale, dove Valerio evidenzia come – nell’utilizzo delle AI -generative (e forse più che in quelle testuali, in quelle visivo-grafiche) sia di fondamentale importanza il prompt.

“Fare domande ragionate può dunque stimolare maggiormente la nostra curiosità e la nostra creatività, aiutandoci a rinunciare agli imperativi e – forse – a farci tornare più umili.”

Anche se penso, in virtù del mio status di “più pessimista tra gli ottimisti”, che l’umiltà come virtù dell’utente richieda uno sforzo immane per essere recuperata, e tempi lunghissimi che basterebbero a garantire uno sviluppo delle AI che le porterebbe ragionevolmente a comunicare con noi in maniera telepatica, mi piace pensare che il cambio di modo di ragionare e l’essere forzati a concepire domande articolate migliori gli utenti e faccia loro compiere un percorso evolutivo almeno equivalente a quello della rete neurale che a quelle domande dovrà rispondere.

Le peregrinazioni in cerca di un nuovo monolocale digitale mi avevano portato a considerare – tra le varie piattaforme – anche Substack. Mi sono presto accorto che non era però cioè che cercavo, e l’ho quindi relegato ad un “forse, un giorno, chissà”, complice anche l’aver compiuto la registrazione con il – mai abbastanza lodato – sistema “Nascondi la mia mail” di Apple.

Si dice spesso “una soluzione in cerca di un problema”. Questo credo sia un caso da manuale.

Durante le ricerche dei link per il mio abituale post domenicale di “roba da leggere sotto il piumone” (ancora per poco, ma ce lo godiamo ostinatamente fino all’ultimo), mi son reso conto di quanto la tipologia di post consistente – per l’appunto – in una serie di link che hanno l’unico scopo di fornire spunti di riflessione o di divertimento stonasse con l’attuale mood del mio blog.

Ho quindi deciso di riesumare Substack (che potremmo definire come la casa naturale delle liste di link periodiche, anche in virtù del suo formato di newslettter) e provare a trasferire lì questa parte del mio io digitale. Se tutto va come deve (siamo pur sempre nella patria dell’anarchia digitale), il primo “numero” dovrebbe essere pronto per domenica prossima.

Quanto al titolo di questo post, mi sto sempre di più godendo di questa nuova “identità distribuita”: con una frequenza d’uso più o meno elevata, questo mondo sfaccettato e diviso tra Mastodon, Rant.li, Vagabundo, Substack, AlbumWhale (e chissà cos’altro) mi sta più “comodo” di quanto potessi pensare prima di lanciarmi nell’esplorazione.

D’altronde, non siamo entità monolitiche (qualcuno meno di altri, per di più), quindi perché dovremmo essere soddisfatti di esprimerci attraverso un unico servizio centralizzato?

La settimana scorsa, Garbage Day proponeva un’interessante analisi “passo per passo” dei casini di Twitter. O meglio, vista la frequenza con cui avvengono, dei casini degli ultimi dieci minuti in Twitter.

In ordine sparso.

In seguito alla pubblicazione del proprio algoritmo, siamo venuti a conoscenza del fatto che le categorie di utenti sono quattro. Non è meraviglioso? Quattro. Tutte le discussioni sulla tribalizzazione online, sulla complessità del mondo rispecchiata nei social media, sul non farsi incasellare...quattro.

Saranno almeno quattro categorie astratte, onnicomprensive per quanto possbile, in grado di riflettere i molteplici punti di vista che...manco per niente.

Quattro. Repubblicani, Democratici, Power user e Elon Musk.

Se non facesse già abbastanza ridere così, pensate che – nella sciagurata parodia di un AMA che Muschio ha messo su (su twitter Spader, ça va sans dire) – alla domanda perchè facesse categoria a sé come i super cattivi di serie B, si è prodotto in un classicissimo “no Maria, io esco”.

Passando a cose più sostanziose, una serie di teorie sul funzionamento dell’ algoritmo di Twitter si son rivelate vere. Hurrà, giusto? Non proprio.

Gli utenti sono organizzati in gruppi e sottogruppi: se si esce dal proprio “recinto ideologico assegnato”, si viene penalizzzati. Twitter molto male.

Il rapporto tra account seguiti e che ci seguono è molto importante. Logico, se ci si pensa, ma deleterio in quanto premia gli spammer, anche perché Twitter Blue (ammesso che alcuno davvero lo usi) aiuta ad essere più visibili, ma mai quanto pubblicare foto e video. Indinniati reloaded. Twitter molto male.

Pubblicare invece link a siti esterni, pur somigliando – apparentemente – ai contenuti multimediali di cui sopra, porta al risultato opposto, ovvero una diminuzione della “promozione”. Perché da qui non si esce. Twitter molto male.

I tweet sull’Ucraina sono classificati come disinformazione. Bene, così fermeremo la propaganda che inquina la discussione pubblica e...no. Tutti sono classificati come disinformazione. Qualsiasi cosa dicano, per il solo fatto di parlarne. Twitter molto male.

Veniamo quindi alla faccenda degli account verificati. Oltre ad essergli costati una serie di sfottò apparentemente infinita, i “blue check” stanno rivelandosi il peggior esempio del “cambio di gestione” della piattaforma. Twitter ora può sospendere temporaneamente l’attribuzione della spunta blu in caso di cambio della foto profilo, dell’immagine associata all’account, o del nome visualizzato. Inutile dire come questo possa rivelarsi un manganello decisamente efficiente contro account “sgraditi”. Un esempio l’abbiamo già avuto: il New York Times, dopo aver pubblicamente dichiarato che non pagherà per la verifica, ha perso la spunta blu. Musk stesso aveva scritto (e ha poi cancellato perché è un essere profondamente razionale, con atteggiamenti per nulla isterici e totalmente equilibrato) che se schifi pubblicamente l’idea di pagare per il blue check, questo ti verrà tolto (anche se rientri in una delle categoria che ne avrebbero “diritto” semiautomaticamente, ovvero “rilevante in attività di governo, informazione, intrattenimento o altra categoria designata”).

Come se ciò non bastasse a definire l’ennesimo caso di gne-gne da parte del nuovo padrone del vapore, un altro tweet successivo all’interno della medesima querelle con il NYT ha classificato i contenuti della testata su Twitter come “l’equivalente della diarrea. Illeggibili”. Twitter molto male.

Cosa rimane, dunque, di non troppo osceno? Sarò ottimista, ma mi pare che l’avere avuto conferma di quelle che potevano essere bollate come semplici supposizioni sia comunque un passo avanti. Sapere come funziona – per ora, poichè l’imponderabilità pare essere più che mai dominante in casa Twitter – una delle piattaforme che, anche in questa condizione di sbando e rapidissima perdita d’importanza, influenza il discorso pubblico in maniera evidentissima, mi pare un’ottima arma difensiva. Un algoritmo noto si può manipolare, si può “rompere”, ma ci permette anche di riconoscere facilmente quando i guastatori e i professionisti della manipolazione entrano in azione. Twitter (suo malgrado) molto bene.

...da ciò che resta di Twitter a Mastodon. Per tutta una serie di ragioni che forse cercherò di mettere giù in futuro.

Mi trovate qui: mstdn.social/@metranet

“None of the outraged commenters had listened to the podcast. They refused to based on the title, which I agree suggests that the podcast would be framing Rowling as a martyr. That was part of why I recommended it. I hoped folks would look past the title and give it a shot, since its contents were actually full of nuance, history, and context for where we find ourselves today.”

Qui si parla di Facebook. ma il motivo per cui sto disertando quasi totalmente Twitter in favore di Mastodon è il medesimo.

Da leggere assolutamente l’articolo di Stephen Wolfram (sì, quel Wolfram) su come funziona ChatGPT.

È un raro caso di scrittura tecnica a sufficienza da essere precisa, senza essere incomprensibile al di fuori della cerchia di addetti ai lavori, che ha quindi il vantaggio ulteriore di dimostrare (una volta di più) che c’è solo una cosa migliore della magia, ovvero la scienza spiegata bene.

Anche Fabrizio Venerandi scopre che (dopo averlo “bullizzato per mesi”, come lui stesso ammette), GPT4 s’inventa le cose.

Nella fattispecie, una recensione devastantemente negativa di un suo libro.

Prossimo passo, insegnarlo a comandare il braccio robotico cui anni fa facevamo fare esercizi di velocità con la katana in mano.

What could go wrong?

Bella analisi di Robin Rendle su un paio di storture osservabili in queste prime fasi d’adozione delle AI (il nostro si riferisce in special modo a quelle generative testuali – cioè a ChatGPT – quindi quelle che più interessano qui.

Per l’altra famiglia “famosa”, quella della generazione d’immagine, di cui fanno parte Midjourney e StableDiffusion, provo solo sentimenti d’invidia, presto sfociante nell’odio, dovuta alla mia totale inadeguatezza grafica.

Rendle pone in particolare modo l’accento sul rischio di “lasciar fare tutto alle AI”, in un pericoloso misto tra l’eccessiva fiducia nelle capacità di un sistema che per quanto impressionante è ancora acerbo e lo dimostra ogni giorno, e la pigrizia del “facciamo risolvere i tediosi problemi pratici alla macchina”. Atteggiamento, quest’ultimo, che potrebbe tradursi in un ammasso di siti ed interfacce “ricicciate”, risultato di tentativi casuali (che le intelligenze artificiali, soprattutto in campo grafico, “tirino ad indovinare” è palese a chiunque abbia usato Midjourney, tant’è che i risultati migliori si ottengono con descrizioni vaghe: chiedi poco, non rimarrai deluso) e rimescolamento semplice dei medesimi elementi.

Volendo essere incredibilmente ottimista (sì questa malattia mi è rimasta), potrei provare ad ipotizzare che si tratti di entusiasmo ed incoscienza per lo strumento incredibilmente pieno di potenzialità che ci sta davanti e che quindi, non appena ci renderemo conto che è solo un altro cacciavite, questa cecità si attenuerà.

Non sparirà mai del tutto, ché c’è ancora chi scambia i social media per il Messia e non distingue la tecnologia dalla magia.

Ma se a tutto questo aggiungiamo che il principale attore dell’attuale panorama AI, quella società che già dal nome promette una cosa ben precisa, si sta comportando in modo del tutto diverso, il futuro rischia di essere attraente come una mano con sei dita.

“In the technology industry, if you don’t have attention, you are not relevant. And there is nothing scarier than irrelevance in Silicon Valley. It is like a Hollywood star losing their good looks. Ignoring someone in tech is essentially triggering their worst fears. Hence, the need to be in the spotlight and get attention. And control the narrative.

And nothing helps with this more than social media.”

On Malik

Intanto, Nicola mi fa scoprire questo bel siterello, AlbumWhale, in cui si possono creare liste di album. Tipo questa.

Per quale scopo?

Perché sì.

Perché le liste sono fighe, la musica pure e se metti insieme le due cose viene fuori un libro meraviglioso, un gran film, una bella serie tv e questo sito di cui stiamo parlando.

Tre su quattro degli elementi della lista ( ;–) ) precedente hanno lo stesso titolo, tra l’altro.