Life In Low-Fi

Ora basta, anarchia!

É strano usare un “diario” per scriverlo, ma non sono proprio tipo da diario. Non credo sia mancanza di disciplina, quanto attitudine “zen”: la maggior parte di ciò che mi passa per la testa viene osservato, considerato e “lasciato andare”. Il resto, forse, è materiale da blog. O da neurodeliri, che poi sono quasi la stessa cosa.

Ovviamente, scritto su Diario di iOS. Vedi titolo.

Una delle molte cose citabili dentro quest’intervista al fondatore di iA a proposito dello stato attuale dell’intelligenza artificiale generativa è:

“[...] with some texts from Chat-GPT, I get the feeling that the meaning that should be in the text is being drawn out of me.”

Un’ottima rappresentazione di una sensazione che talora mi coglie leggendo cose che sono (potrebbero essere? Saranno davvero?) prodotte con l’AI utilizzata come scorciatoia.

Se da un lato, ed è lo stesso Oliver Reichenstei ad ammetterlo tra le righe, esistono casi di contenuti generati tramite l’intelligenza artificiale che non lasciano del tutto a desiderare (premio “Eufemismo dell’anno”, sei mio!), è anche vero che questi sono quelli che meno denunciano la loro origine.

È come se la pigrizia nel produrre contenuto (dovuta, chissà, alla smania di produrre “tanto”, oppure ad una cosciente o incosciente incapacità di fare di meglio in autonomia e con mezzi “classici” che fa ripiegare su soluzioni alla buona ma con zero impegno richiesto o quasi) avesse come effetto lo scaricamento totale sul lettore del compito di attribuire un senso a ciò che si vede o sente o legge.

Quanto sia involontario questo effetto e quanto chi lo produce ne sia non cosciente, non saprei dirlo.

O forse non voglio, stonerebbe con il mio “notorio ottimismo”.

P.S. Interessante anche questo passaggio sulla nascita della fotografia e ciò che comportò per la pittura: “When cameras emerged in the 19th century, artists had to reconsider why they should continue painting. The Impressionist movement arose from this. It was no longer enough to simply replicate nature. The essential was how one expressed their impression of nature. Something similar is happening today.” Mi ricorda uno dei saggi più interessanti che abbia mai letto, sempre più attuale ogni anno che passa.

Un interessante post su Macstories che descrive le modalità di funzionamento della CIE francese.

Eccezion fatta per un caso d’uso, l’ultimo, ovvero la produzione di un certificato di “notorietà” in forma digitale (che non mi risulta sia fattibile con la nostra CIE via app), l’esperienza è quasi totalmente sovrapponibile.

Questo per quanto riguarda i pregi (personalmente, anche il più piccolo e squallido tentativo di “digitalizzare” la burocrazia è benvenuto: male che vada, sarà un percorso per prove ed errori), sia per i difetti, strani e numerosi e sostanzialmente coincidenti con quelli della nostra versione.

A partire dall’insensata macchinosità del processo di login nei servizi pubblici – ricordiamocelo ogniqualvolta qualcuno propone di abolire SPID per gettarci a capofitto tra le esclusive braccia di mamma CIE – per continuare con i dubbi (che sono peggiori di una conferma in negativo) circa la possibilità di usare davvero la CIE come unico documento d’identità “di persona”, senza sentirsi contestare alcunché o essere guardati con sospetto come “quelli strani a tutti i costi”. Addirittura SNCF (Trenitalia, FF.SS o come volete chiamarla in versione transalpina) non consente l’utilizzo della CIE digitale come documento d’identità, pretendendo che si presenti la versione fisica. Benvenuto, 1924.

Resta sempre – in questi casi – il dubbio che chi concepisce questi sistemi, e ancor più chi ne limita i casi d’uso in maniera cosi arbitraria e pervasiva da renderli quasi inutili, non sia abbastanza di frequente messo in condizione di averne bisogno. Non c’è nulla come sbattere contro cattivi esempi di implementazione per stimolare la volontà di porvi rimedio.

Scopro sul blog di Luigi (grazie, come al solito), scopro l’esistenza di EchoFeed: un servizio che si occupa di fare quello che fino a questo momento ho fatto praticamente a mano, ovvero rendere accessibile il feed RSS di questi miei deliri su Mastodon (e altrove, volendo, ma per ora penso partirò da lì).

Mi fiondo a configurarlo, in maniera da poter più efficientemente appestare il Fediverso, ma nel frattempo vorrei aggiungere una riflessione “volante” a quella già espresse lucidamente dal Nostro circa la sua presunta “perdita di socialità”.

Mi trovo a vivere in una situazione simile, ma proporrei un’ottica diversa, partendo dal mio “allontanamento di fatto” da Twitter/X (già il fatto che lo chiami ancora con il doppio nome indica da quanto tempo non lo frequenti attivamente; non so perchè stia esitando a cancellare l’account, forse per infondato ottimismo nel fatto che possa tornare un luogo vivibile).

Mastodon è stato, all’inizio, un tentativo di trovare qualcosa che somigliasse a ciò che mi aveva fatto innamorare di Twitter: velocità, stringatezza, varietà di fonti e argomenti, uno spicchio di internet che echeggiava (scusa, Luigi ;–) ) l’intero, pur avendo una sua personalità e con il vantaggio di una dispersività infinitamente minore (la rete è piena di cose fighissime, lo sappiamo, ma trovarle a volte è un’impresa oltre la portata dell’utente).

Man mano che lo esploravo, scoprivo alcune peculiarità:

1) Non è Twitter, né aspira ad esserlo. Questo è stato forse il fraintendimento (volontario, temo) più frequentemente alimentato da chi parlava di Mastodon nella fase di sua maggiore visibilità presso il pubblico generalista. Le basi sono differenti, come il modello d’uso e gli obiettivi verso cui si tende a portare lo sviluppo della piattaforma. Anzi, delle piattaforme. Paragonarlo 1:1 a Twitter è come dire che YouTube e Netflix sono identici, perchè entrambi trasmettono video on demand.

2) Le dimensioni non contano . Non solo Mastodon non ha la medesima brama di “espansione illimitata” di Twitter (o, per quel che vale, di qualunque social network prettamente commerciale), ma a tratti è quasi l’opposto: piccolo è bello, specializzato fino all’estremo è bello, ci piacciono le nicchie in cui accomodarci con una bevanda calda e pochi amici selezionati, a parlare delle nostre idiosincrasie condivise. Questo è frutto di un paio di motivi almeno: pochi, se non nessuno, pensa o prova a farci i soldi, quindi “tanti utenti” non equivale a “tanto meglio”: anzi; considerando la natura quasi “hobbystica” della maggior parte dei server che sostengono il Fediverso, “tanti utenti” vuol dire quasi esclusivamente “tanti soldi necessari per adeguare e mantenere l’infrastruttura”. Questo porta, forse, ad uno spiazzante corollario: se da un lato è indubitabile che le piattaforme commerciali sguazzino nella profilazione e nel lucro da essa derivante, d’altra parte **per sostenere una notevole massa di utenti i soldi sono letteralmente necessari **. Insomma, non siamo – noi utenti -forse l’origine delle storture di Instagram, Facebook, X e simili, ma potremmo esserne concausa.

3) La pressione è decisamente più bassa. Non ne soffrivo nemmeno su Twitter, ma su Mastodon mi pare che – per tutti motivi suddetti e altri ancora – l’ansia da prestazione sia davvero al minimo storico. Anche adesso, in una fase in cui gli utenti sono cresciuti parecchio rispetto a quando mi sono iscritto (e non sono stato nemmeno lontanamente tra i “pionieri”, anzi), sembra sempre di essere in un baretto tra amici invece che da Starbucks: se hai qualcosa da dire e hai voglia di dirlo, ok. Magari nessuno ti ascolterà, ma va bene anche così (noi titolari di blog da eoni sappiamo bene quanto ci piaccia e sia terapeutico lamentarci senza necessariamente avere un riscontro tangibile. Dopotutto, scrivo su una piattaforma che si chiama Rant.li ;–) )

Soprattutto quest’ultimo punto mi porta dritto ad una conclusione: quella che ho sperimentato con Mastodon, e che mi apre d’intravedere nelle parole di Luigi, non è una “diminuita socialità”, ma una socialità che assomiglia di più a quella “fisica” e “analogica”. Nessuno di noi si metterebbe a declamare le proprie opinioni in pubblico in continuazione, cercando di far sapere a quanta più gente possibile cosa pensa su qualsiasi argomento. Quella è roba da Hyde Park’s Corner, dove c’è – è vero – gente che declama meravigliosamente poesie a memoria, ma anche chi prova a tutti i costi a convincerti che i Rettiliani stanno dominando il mondo e moriremo tutti prestissimo e malissimo. Noi chiacchieriamo, solo a volte, solo con chi ci va, solo di alcuni argomenti e nemmeno sempre gli stesisi. Soprattutto, chiacchieriamo per conoscere l’opinione di persone di cui c’interessa su cose che c’interessano: mi pare piuttosto evidente, non fosse altro per esperienza diretta pliuriennale, come nella stragrande maggioranza dei casi questo sia in drammatica e pressochè totale contraddizione con i social network classici.

Questo porta ancora una volta a considerare la superiorità dei blog, non fosse altro per una versatilità che manca – in queste proporzioni – a qualunque altra piattaforma.

Ciò che mi consola e mi fa rimanere sui Mastodon è che mi sembra di aver scoperto una “terza via” tra le innumerevoli incarnazioni dei miei deliri in paginette che digitalmente chiamo casa e un’apertura verso una parte di mondo cui potrei – per puro accidente – dare qualcosa e dalla quale potrei – se fortunato – ricevere altrettanto. Probabilmente, molto di più.

Il Voyager 1 continua ad essere fonte di meraviglia “collaterale”. Collaterale al fatto di essere una navicella spaziale lanciata nel 1977 e ancora funzionante a 24 miliardi di chilometri da noi, intendo.

Se Gruber chiosa – giustamente – chiedendo di ricordargli di questa fatica di Sisifo ogni volta che dovesse lamentarsi di dover fare il debug di qualcosa, io aggiungerei – come “bilanciatore d’umore” – di ricordarsi che cose come queste sono fattibili, quando ci sentiamo dire che è normale dover produrre svariate copie cartacee di documenti contenenti dati già in possesso degli enti che li richiedono e poi attendere mesi perché il tutto produca...qualcosa.

Non ricordo se ne avessi già parlato da queste parti, ma questi “sticker digitali” sono e restano puro genio. In qualche caso (qualcuno di troppo), genio al servizio della propria sanità mentale.

Mentre cercavo – stolto – di ridurre il numero di post non letti nella mia coda di Reeder, mi sono imbattuto in due articoli interessanti e strettamente correlati. In una maniera non del tutto positiva.

Portiamo all’attenzione della giuria il reperto numero uno: un post di Matthew Cassinelli su una nuova app che consente di scrivere presentazioni in Markdown. E no, non è iA Presenter (anche se ha il medesimo problema in una forma leggermente più irritante).

Bell’idea, realizzazione ammirevole, sembra che possa fare per me. Clicco sul link all’interno del post, mentre recito l’ormai solito mantra:”speriamo che non sia solo in abbonamento”.

Sul sito, alla voce “Pricing”, vedo un meraviglioso 35€ “one time purchase”. Gioisco, poi leggo l’intestazione: Mac version. Vabbè, penso stupidamente, la tariffa sarà unica (molti sviluppatori fanno pagare un prezzo cumulativo per le licenze di “ecosistema”. Stolto. C’è una sezione apposta per la versione iOS (“Uau, attenzione alla piattaforma!”) che porta direttamente alla pagina su App Store.

Abbonamento. Mensile o annuale. Nemmeno troppo caro. Ma solo quello.

Proseguiamo con il reperto numero due: un post di Loox su LibreItalia e i Copernicani, associazioni cui il nostro s’iscrive da anni, che svolgono un’azione meritoria e che dunque godono a giusto titolo della “vetrina” che viene loro offerta.

Poiché negli ultimi mesi sto “curiosando” sulle possibilità “estetiche” di PowerPoint (che resta un programma abbastanza orribile, ma con cui a livello grafico si possono fare cose interessanti con poco sforzo), mi viene la curiosità di verificare se l’app di creazione di slides di LibreOffice possa essere sfruttata allo stesso modo.

Io sono in una condizione di “iPad centrismo totale”: non ho un portatile Mac da anni, il fisso è un Intel i5 del 2014. LibreOffice funziona più che degnamente sul Mac.

Su iOS, in pratica, non esiste.

Qualche visualizzatore, un solo editor non ufficiale.

Questo vuol dire tagliare fuori un’intera fetta di mercato. Magari non grossa, magari non. Importante, ma che esiste.

Se nel primo caso può trattarsi di miopia commerciale, o meglio, di una legittima scelta che io considero miope in quanto utente direttamente “danneggiato”, nel secondo trovo la cosa decisamente più grave.

Chi intende opporsi ad un oligopolio (non è un monopolio, al massimo un duopolio, data l’esistenza della terrificante alternativa Google Docs, a mio avviso anche peggiore di Office365) dovrebbe avere come obiettivo primario – assieme al farsi conoscere come alternativa praticabile – quello della minor frizione possibile nell’adozione della propria soluzione.

Non si possono affidare le sorti del “cavaliere bianco delle Office Suite” al signor Akikazu (giuro, non è uno scherzo) Yoshikawa.

Questi sono tutti anelli di una stessa catena di pessime decisioni. E se un anello solo – fragile, mal pensato, mal realizzato – basta proverbialmente a spezzare la più solida delle catene, con così tanti anelli sbagliati possiamo agevolmente costruirne una che ci trascini a fondo.

Una considerazione al volo – decisamente troppo – sulla “restrizione” imposta in Inghilterra al film Disney Mary Poppins.

Siamo sicuri che “vietare”, “limitare”, “modificare”, “aggiornare” il linguaggio di opere di decenni (o secoli) fa sia la strada più efficace per far sì che l’ambiente sociale e culturale che li ha creati non si ripeta?

Se gli inglesi del primo Novecento chiamavano (seguendo gli olandesi che coniarono il termine) “Ottentotti” tutte le popolazioni dell’Africa colonizzata, non avrebbe maggior effetto didattico – nel senso letterale del termine – capire da dove provenga il termine e perché utilizzarlo possa essere anacronistico (al minimo) o problematico (al massimo)?

Nascondere la polvere che abbiamo creato sotto il tappeto della sensibilità moderna non la farà scomparire: otterremo solo che, se qualcuno decidesse di alzare il tappeto (e ne vedo parecchi in giro che non sembrano aspettare altro), la polvere ce la ritroveremo ovunque.