Life In Low-Fi

Ora basta, anarchia!

In ritardo, ma che strano. John Gruber, noto opinionista in ambito Apple, ha un problema con la regolamentazione dell’Unione europea circa iOS.

La suddetta, riassunto fatto con i piedi, consente agli utenti di fruire di maggiori possibilità (“libertà” è un termine che andrebbe usato con le pinze, ma vabbè) di intervenire sulle funzioni dei propri dispositivi: App Store alternativi, browser alternativi a Safari con pari “dignità operativa” di quello di sistema (tanto per capirci, si poteva già installare Chrome, Firefox, Opera o chi per essi, ma di fatto si trattava di un’emulazione compiuta dal medesimo motore che costituisce la base di Safari) e altre funzioni che – nell’intento del regolatore – dovrebbero sottrarre un po’ di controllo alla mega multinazionale e rimetterlo in capo agli utilizzatori.

Questo è stato accolto (come altre decisioni della Commissione europea) in modi molto diversi dalle varie parti in causa: Apple “ha fatto l’offesa”, con una ritorsione immediata e abbastanza spettacolare che è consistita nel disabilitare (o meglio, annunciare che avrebbe disabilitato, la situazione pare essersi evoluta da allora; vedremo, i tempi di azione e reazione sono rapidissimi e tutto può ancora succedere) Apple Intelligence, la versione di Cupertino della A.I. nonchè uno dei principali motivi d’interesse dei nuovi terminali. “Non sappiamo in quali modi potrebbero contestarci l’utilizzo e il trattamento dei dati, o cosa potrebbero imporci legalmente di fare con i medesimi (renderli disponibili a terze parti, quando uno dei principali selling point è – come sempre – l’assoluto controllo su ciò che esce dal terminale, al punto da presentare un messaggio all’utente quando l’elaborazione delle richieste porta ad appoggiarsi a software esterni?), quindi aspettiamo e vediamo”. Uno gne gne abbastanza elegante, devo dire.

Alcuni giornalisti americani – capofila The Verge – hanno lanciato articoli che francamente trovo appena oltre la soglia del coicknbaiting con titoli stile “l’iPhone che hanno gli europei è molto più divertente della nostra”.

Altri, come Gruber, hanno vissuto questo – oggettivamente abbastanza invasivo – intervento della U.E (o sarebbe meglio dire dell’ex Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager, da tempo in aperta polemica con Apple) come un’intromissione dello Stato (Super stato? Para stato? Fate voi) nella libertà operativa di un’azienda privata.

Ciò che mi ha più stupito, però, sono stati gli interventi di due “blogger” (eh, son vecchia scuola, che ci volete fare) che seguo sempre con interesse e passione: Federico Viticci e Luigi Mozzillo.

Se non conoscete il primo, non siete appassionati Apple; se non conoscete il secondo, non sapete cosa vi state perdendo.

Scrive Viticci su MacStories, linkato da Gruber (grassetto mio):

It’s still iOS, with the tasteful design, vibrant app ecosystem, high-performance animations, and accessibility we’ve come to expect from Apple; at the same time, it’s a more flexible and fun version of iOS predicated upon the assumption that users deserve options to control more aspects of how their expensive pocket computers should work. Or, as I put it: some of the flexibility of Android, but on iOS, sounds like a dream to me.

Apparently, this thought — that people who demand options should have them — really annoys a lot of (generally American) pundits who seemingly consider the European Commission a draconian entity that demands changes out of spite for a particular corporation, rather than a group of elected officials who regulate based on what they believe is best for their constituents and the European market.

Mi permetto di dissentire. Non è tanto la libertà di scelta ciò che Gruber discute, quanto le modalità per raggiungerla. Per esempio, considera il rientro di Fortnite (e di Epic) dalla “finestra” del DMA come un ribaltamento degli effetti della sentenza che aveva “castigato” le pratiche quantomeno opache del game producer. “In cambio”, sostiene Gruber (con un evidente artificio retorico, ma appoggiandosi su fatti verificabili al momento in cui scrive) s’apriscono il Mirroring di iPhone e Apple Intelligence. Difficile non qualificarlo i come una – almeno potenziale – perdita per l’utente.

Cita anche, a mio avviso mettendoci “il carico”, la possibilità di installare Chrome come un sostanziale svantaggio. E se da un lato è facile usare Chrome come bersaglio e ignorare gli altri browser che beneficeranno della legge in questione, ed è addirittura falso che ci sia un collegamento diretto tra la batteria devastata e il software di Mountain view, dall’altro la scandalosa storia della modalità incognito che non era incognito per niente è davvero dura da controbattere. Ma Chrome è uno dei “vantaggi” citati nell’articolo di The Verge, e dunque...

Per quanto riguarda Luigi, a mio avviso parte – come Federico quando giustamente esalta la libertà di scelta per gli utenti – da un punto di vista che ha un enorme angolo cieco.

Sono utente Mac da più di vent’anni, e capisco perfettamente l’argomento della “libertà di gestione”: ho fatto una faccia schifata quando pareva che Gatekeeper fosse instradato verso una deriva di “o AppStore o niente”.

Ma iOS non è MacOS.

E soprattutto, **l’utenza iOS non è l’utenza MacOS”.

Un esempio, lampo, per chiarire: I Am Rich. Apple maledetta che lucra sui poveri utenti ingenui e candidi.

Immaginate la modalità “incognito fasullo” di Chrome su iOS. Adesso, visualizzate i titoli delle varie testate (generalisti ma non solo: visti i precedenti con – ad esempio – l’allucinante polemica sul termine “courage”) stile “L’iPhone non protegge i vostri dati come dice, ecco come possono spiarvi per mesi”. Om.

Quindi, personalmente, leggo tra le righe una maggiore enfasi circa la possibilità che la bassa “alfabetizzazione” della base utente di iPhone (quanti ne conoscete per cui il telefono è Tik Tok e poco altro?) porti a disastri in cui Apple avrebbe minima responsabilità e massima colpa.

Questione di punti di vista, chiaro: l’unico modo di scoprirlo sarà aspettare e vedere come va a finire.

P.S. Un vantaggio dello scrivere “in differita” (ritardo sarebbe più appropriato, ma mica posso sempre flagellarmi: un pochino di autoindulgenza, suvvia): a quanto pare, l’EU sta pensando (delicato eufemismo) di poter decidere quale grado di apertura un sistema operativo commerciale e proprietario, non monopolista (anzi, neppure maggioritario) debba offrire ai produttori di accessori terzi. Come giustamente fatto notare in brillante sintesi, siamo ad un passo dal “riscrivere le API”. Un altro caso di invidia statunitense, o semplicemente qualcuno si sta facendo prendere la mano?

Con un (minimo) di tempo a disposizione in più (non lo chiamerò “libero” perché non lo è...diciamo “più liberamente amministrabile “), e per tentare di bilanciare l’amaro in bocca del post precedente, approfitto per consigliare la lettura della newsletter di Michele Serra “Ok Boomer!” La trovate qui ed è sempre un piacere.

Ci si prova, ad avere a che fare anche con cosa belle.

Il fatto è,che ci abituiamo troppo bene, troppo velocemente. Sul post di (@Lux)[https://macintelligence.org/post/2024-06-06-tutto-si-sistema/] circa la spettacolare performance del nostro Servizio Sanitario Nazionale – esami del sangue con risultati disponibili digitalmente in giornata – mi sovvengono un paio di considerazioni non troppo ottimistiche: un risultato del genere può far sorgere due domande non troppo piacevoli- 1) Perchè il sistema non funziona normalmente così? È possibile, dunque perché non è lo standard? 2) Cosa si potrebbe ottenere, se solo non mortificassimo quotidianamente a livello professionale e di risorse il suddetto SSN ogniqualvolta ne abbiamo la possibilità?

La verità è che sono stanco, ho bisogno di ferie e quindi vedo un po’ troppo nero.

Ma tant’è.

É strano usare un “diario” per scriverlo, ma non sono proprio tipo da diario. Non credo sia mancanza di disciplina, quanto attitudine “zen”: la maggior parte di ciò che mi passa per la testa viene osservato, considerato e “lasciato andare”. Il resto, forse, è materiale da blog. O da neurodeliri, che poi sono quasi la stessa cosa.

Ovviamente, scritto su Diario di iOS. Vedi titolo.

Una delle molte cose citabili dentro quest’intervista al fondatore di iA a proposito dello stato attuale dell’intelligenza artificiale generativa è:

“[...] with some texts from Chat-GPT, I get the feeling that the meaning that should be in the text is being drawn out of me.”

Un’ottima rappresentazione di una sensazione che talora mi coglie leggendo cose che sono (potrebbero essere? Saranno davvero?) prodotte con l’AI utilizzata come scorciatoia.

Se da un lato, ed è lo stesso Oliver Reichenstei ad ammetterlo tra le righe, esistono casi di contenuti generati tramite l’intelligenza artificiale che non lasciano del tutto a desiderare (premio “Eufemismo dell’anno”, sei mio!), è anche vero che questi sono quelli che meno denunciano la loro origine.

È come se la pigrizia nel produrre contenuto (dovuta, chissà, alla smania di produrre “tanto”, oppure ad una cosciente o incosciente incapacità di fare di meglio in autonomia e con mezzi “classici” che fa ripiegare su soluzioni alla buona ma con zero impegno richiesto o quasi) avesse come effetto lo scaricamento totale sul lettore del compito di attribuire un senso a ciò che si vede o sente o legge.

Quanto sia involontario questo effetto e quanto chi lo produce ne sia non cosciente, non saprei dirlo.

O forse non voglio, stonerebbe con il mio “notorio ottimismo”.

P.S. Interessante anche questo passaggio sulla nascita della fotografia e ciò che comportò per la pittura: “When cameras emerged in the 19th century, artists had to reconsider why they should continue painting. The Impressionist movement arose from this. It was no longer enough to simply replicate nature. The essential was how one expressed their impression of nature. Something similar is happening today.” Mi ricorda uno dei saggi più interessanti che abbia mai letto, sempre più attuale ogni anno che passa.

Un interessante post su Macstories che descrive le modalità di funzionamento della CIE francese.

Eccezion fatta per un caso d’uso, l’ultimo, ovvero la produzione di un certificato di “notorietà” in forma digitale (che non mi risulta sia fattibile con la nostra CIE via app), l’esperienza è quasi totalmente sovrapponibile.

Questo per quanto riguarda i pregi (personalmente, anche il più piccolo e squallido tentativo di “digitalizzare” la burocrazia è benvenuto: male che vada, sarà un percorso per prove ed errori), sia per i difetti, strani e numerosi e sostanzialmente coincidenti con quelli della nostra versione.

A partire dall’insensata macchinosità del processo di login nei servizi pubblici – ricordiamocelo ogniqualvolta qualcuno propone di abolire SPID per gettarci a capofitto tra le esclusive braccia di mamma CIE – per continuare con i dubbi (che sono peggiori di una conferma in negativo) circa la possibilità di usare davvero la CIE come unico documento d’identità “di persona”, senza sentirsi contestare alcunché o essere guardati con sospetto come “quelli strani a tutti i costi”. Addirittura SNCF (Trenitalia, FF.SS o come volete chiamarla in versione transalpina) non consente l’utilizzo della CIE digitale come documento d’identità, pretendendo che si presenti la versione fisica. Benvenuto, 1924.

Resta sempre – in questi casi – il dubbio che chi concepisce questi sistemi, e ancor più chi ne limita i casi d’uso in maniera cosi arbitraria e pervasiva da renderli quasi inutili, non sia abbastanza di frequente messo in condizione di averne bisogno. Non c’è nulla come sbattere contro cattivi esempi di implementazione per stimolare la volontà di porvi rimedio.

Scopro sul blog di Luigi (grazie, come al solito), scopro l’esistenza di EchoFeed: un servizio che si occupa di fare quello che fino a questo momento ho fatto praticamente a mano, ovvero rendere accessibile il feed RSS di questi miei deliri su Mastodon (e altrove, volendo, ma per ora penso partirò da lì).

Mi fiondo a configurarlo, in maniera da poter più efficientemente appestare il Fediverso, ma nel frattempo vorrei aggiungere una riflessione “volante” a quella già espresse lucidamente dal Nostro circa la sua presunta “perdita di socialità”.

Mi trovo a vivere in una situazione simile, ma proporrei un’ottica diversa, partendo dal mio “allontanamento di fatto” da Twitter/X (già il fatto che lo chiami ancora con il doppio nome indica da quanto tempo non lo frequenti attivamente; non so perchè stia esitando a cancellare l’account, forse per infondato ottimismo nel fatto che possa tornare un luogo vivibile).

Mastodon è stato, all’inizio, un tentativo di trovare qualcosa che somigliasse a ciò che mi aveva fatto innamorare di Twitter: velocità, stringatezza, varietà di fonti e argomenti, uno spicchio di internet che echeggiava (scusa, Luigi ;–) ) l’intero, pur avendo una sua personalità e con il vantaggio di una dispersività infinitamente minore (la rete è piena di cose fighissime, lo sappiamo, ma trovarle a volte è un’impresa oltre la portata dell’utente).

Man mano che lo esploravo, scoprivo alcune peculiarità:

1) Non è Twitter, né aspira ad esserlo. Questo è stato forse il fraintendimento (volontario, temo) più frequentemente alimentato da chi parlava di Mastodon nella fase di sua maggiore visibilità presso il pubblico generalista. Le basi sono differenti, come il modello d’uso e gli obiettivi verso cui si tende a portare lo sviluppo della piattaforma. Anzi, delle piattaforme. Paragonarlo 1:1 a Twitter è come dire che YouTube e Netflix sono identici, perchè entrambi trasmettono video on demand.

2) Le dimensioni non contano . Non solo Mastodon non ha la medesima brama di “espansione illimitata” di Twitter (o, per quel che vale, di qualunque social network prettamente commerciale), ma a tratti è quasi l’opposto: piccolo è bello, specializzato fino all’estremo è bello, ci piacciono le nicchie in cui accomodarci con una bevanda calda e pochi amici selezionati, a parlare delle nostre idiosincrasie condivise. Questo è frutto di un paio di motivi almeno: pochi, se non nessuno, pensa o prova a farci i soldi, quindi “tanti utenti” non equivale a “tanto meglio”: anzi; considerando la natura quasi “hobbystica” della maggior parte dei server che sostengono il Fediverso, “tanti utenti” vuol dire quasi esclusivamente “tanti soldi necessari per adeguare e mantenere l’infrastruttura”. Questo porta, forse, ad uno spiazzante corollario: se da un lato è indubitabile che le piattaforme commerciali sguazzino nella profilazione e nel lucro da essa derivante, d’altra parte **per sostenere una notevole massa di utenti i soldi sono letteralmente necessari **. Insomma, non siamo – noi utenti -forse l’origine delle storture di Instagram, Facebook, X e simili, ma potremmo esserne concausa.

3) La pressione è decisamente più bassa. Non ne soffrivo nemmeno su Twitter, ma su Mastodon mi pare che – per tutti motivi suddetti e altri ancora – l’ansia da prestazione sia davvero al minimo storico. Anche adesso, in una fase in cui gli utenti sono cresciuti parecchio rispetto a quando mi sono iscritto (e non sono stato nemmeno lontanamente tra i “pionieri”, anzi), sembra sempre di essere in un baretto tra amici invece che da Starbucks: se hai qualcosa da dire e hai voglia di dirlo, ok. Magari nessuno ti ascolterà, ma va bene anche così (noi titolari di blog da eoni sappiamo bene quanto ci piaccia e sia terapeutico lamentarci senza necessariamente avere un riscontro tangibile. Dopotutto, scrivo su una piattaforma che si chiama Rant.li ;–) )

Soprattutto quest’ultimo punto mi porta dritto ad una conclusione: quella che ho sperimentato con Mastodon, e che mi apre d’intravedere nelle parole di Luigi, non è una “diminuita socialità”, ma una socialità che assomiglia di più a quella “fisica” e “analogica”. Nessuno di noi si metterebbe a declamare le proprie opinioni in pubblico in continuazione, cercando di far sapere a quanta più gente possibile cosa pensa su qualsiasi argomento. Quella è roba da Hyde Park’s Corner, dove c’è – è vero – gente che declama meravigliosamente poesie a memoria, ma anche chi prova a tutti i costi a convincerti che i Rettiliani stanno dominando il mondo e moriremo tutti prestissimo e malissimo. Noi chiacchieriamo, solo a volte, solo con chi ci va, solo di alcuni argomenti e nemmeno sempre gli stesisi. Soprattutto, chiacchieriamo per conoscere l’opinione di persone di cui c’interessa su cose che c’interessano: mi pare piuttosto evidente, non fosse altro per esperienza diretta pliuriennale, come nella stragrande maggioranza dei casi questo sia in drammatica e pressochè totale contraddizione con i social network classici.

Questo porta ancora una volta a considerare la superiorità dei blog, non fosse altro per una versatilità che manca – in queste proporzioni – a qualunque altra piattaforma.

Ciò che mi consola e mi fa rimanere sui Mastodon è che mi sembra di aver scoperto una “terza via” tra le innumerevoli incarnazioni dei miei deliri in paginette che digitalmente chiamo casa e un’apertura verso una parte di mondo cui potrei – per puro accidente – dare qualcosa e dalla quale potrei – se fortunato – ricevere altrettanto. Probabilmente, molto di più.

Il Voyager 1 continua ad essere fonte di meraviglia “collaterale”. Collaterale al fatto di essere una navicella spaziale lanciata nel 1977 e ancora funzionante a 24 miliardi di chilometri da noi, intendo.

Se Gruber chiosa – giustamente – chiedendo di ricordargli di questa fatica di Sisifo ogni volta che dovesse lamentarsi di dover fare il debug di qualcosa, io aggiungerei – come “bilanciatore d’umore” – di ricordarsi che cose come queste sono fattibili, quando ci sentiamo dire che è normale dover produrre svariate copie cartacee di documenti contenenti dati già in possesso degli enti che li richiedono e poi attendere mesi perché il tutto produca...qualcosa.

Non ricordo se ne avessi già parlato da queste parti, ma questi “sticker digitali” sono e restano puro genio. In qualche caso (qualcuno di troppo), genio al servizio della propria sanità mentale.