Do what i say, don’t do what i do.

Arrivo -tramite uno dei blog di Nicola – ad un post che contesta l’utilità della “homepage fatta apposta” nei blog.

L’autore ha questa configurazione in uso: personalmente, la trovo splendida.

Concordo circa l’inutilità di una “homepage” in senso classico, pur ritenendo fantastica quella del blog di Robin Rendle (che però, bisogna ammetterlo, di “classico” ha davvero poco).

Non ho praticamente mai utilizzato tag e categorie, temendo possano farmi ricadere – in uno spazio che vorrei più istintivo possibile – nella sindrome dell’archivista: passare più tempo ad occuparsi della categorizzazione di ciò che scrivo, che della sua sostanza.

Detto questo, ho appena fornito due esempi molto diversi di blog, dichiarando – sinceramente – di ammirarli entrambi.

Credo non esista una sola formula, né che la conformazione di un sito dipenda solo dalla sua “categorizzazione”. Dietro il proprio angolino di internet esiste l’autore, con la sua personalità, i suoi gusti (anche estetici: sono convinto che il proprio sito debba piacere prima di tutto a se stessi) e le sue urgenze. Si scrive, su Internet è/o altrove, per mille motivi, ma tutti sono riconducibili ad un’urgenza personale, ad una passione.

Con il rischio che si corre continuamente di essere – volontariamente o più spesso inconsapevolmente – incasellati durante ogni nostra attività, questa potrebbe essere una delle pochissime occasioni in cui si riesce -non dico a sfuggire alla classificazione- ma almeno a decorare la scatola in cui siamo infilati.