La fragilità (umana) del Cloud

Ottimo post – non è una novità – di Fabrizio Venerandi che racconta la propria disavventura con uno smartwatch Suunto. L’azienda decide di dismettere l’interfaccia web che rende programmabile (e dunque infinitamente flessibile) l’orologio, creando ad esempio allenamenti molto specifici e dettagliati, in favore di un’app più semplice e decisamente molto più limitata.

Commenta il nostro (grassetto mio);

“Non è la prima volta che mi succede: account scuola di Google che vengono chiusi e io perdo tutti i moduli interattivi che avevo programmato, musica con drm che si appoggia a servizi che chiudono impedendo la riproduzione musicale e via dicendo. Gli esempi potrebbero continuare per pagine e pagine, da servizi di blogging, newsletter, vendita oggetti, social network.”

La tesi, dunque, è quella che dovremmo prestare molta attenzione (comunque molto più di quella – vicina allo zero in molti casi – che dedichino ora alla questione) nell’affidarci a sistemi e servizi cloud based.

Perché se è vero – e lo è – che “il cloud è semplicemente il computer di qualcun altro”, basta relativamente poco perché quest’altro deicida di spegnere tutto in quanto non più interessato (sotto questo punto di vista, trovo sempre incredibile come l’esperienza che in tanti “vecchi” hanno vissuto con il P2P non abbia portato frutto: se nessuno condivide, non c’è via d’uscita dall’impasse), o per semplice convenienza introduca cambiamenti che possono distruggere parti per noi fondamentali del servizio.

Ma è qui che occorre – a mio avviso – sottolineare un aspetto che mi pare passi un po’ sottotraccia nel pezzo di Fabrizio: non deve essere per forza così.

Dobbiamo sempre pensare a cosa succederebbe dei nostri dati se il servizio che utilizziamo domani scomparisse, o diventasse per qualsiasi motivo inadatto o insostenibile (penso ad esempi eclatanti e recenti come Twitter e Reddit): il formato dovrebbe essere il più aperto e “neutro” possibile e l’esportazione dei propri dati (che in moltissimi casi sono ciò che rende utile, interessante e di successo quel servizio) completa e alla portata di chiunque (senza procedure da sacrificio umano durante un plenilunio, o in formati che rendono di fatto impossibile fare altro che non sia riaccedervi tramite l’app o il servizio che stiamo cercando di abbandonare). Ma anche nei casi peggiori, quali ad esempio i due esplicitamente citati da Fabrizio, il problema è umano, non tecnico.

Soprattutto per quanto riguarda la perdita di moduli interattivi di Google, la responsabilità non è del cloud in quanto tale, ma di chi lo gestisce.

Non ha chiuso Google Moduli/Forms, ma chi aveva il compito di gestire quegli account scolastici (la cosa, purtroppo, non mi risulta strana né poco familiare) semplicemente non ha pensato alle conseguenze della disattivazione di quello specifico account.

Fatti salvi gli accordi commerciali di licenza (che non possiamo conoscere, ma che comunque sono aspetti legali e non tecnologici di un servizio, cloud o no), un brano audio offerto da un servizio che chiude i battenti può essere lasciato scaricare – SENZA DRM – agli utenti che ne abbiano diritto.

Come spesso, quasi sempre, accade e come ci ha insegnato il Condor, il maggiore punto debole di una tecnologia è quello tra la sedia e la tastiera.